BIOGRAFIA AUTORE: M.Antonietta Drago è nata a Livorno nel 1982. È laureata in giurisprudenza presso l’Università di Pisa. Da alcuni anni lavora nel settore sociale e coltiva la passione per le tematiche dell’educazione alla mondialitá e dell’immigrazione.
Tutti i racconti che si rispettino nascono da un qualcosa che ci ha colpito, che ci ha fatto riflettere, da un ricordo o da un’emozione forte. Ed è proprio da un episodio particolare che mi è accaduto che prende vita questa storia.
Qualche giorno fa ero andata a fare una passeggiata nel parco sotto casa: era pomeriggio e prima di rientrare a casa mi sentivo di voler andare a rilassarmi, a camminare sotto i robusti pini che costeggiano i vialetti interni di Villa Ada. Camminavo spensierata, forse anche un po’ distratta, con a tracolla la mia borsa con dentro le solite cose più o meno utili che si accumulano nelle borse ma dentro c’era anche un libro che avevo ricevuto per il mio compleanno e che mi ero ripromessa tante volte di aprirlo ma ancora non vi ero mai riuscita e intanto “dormiva” indisturbato nella mia borsa, ormai da quasi un mese.
Ad un certo punto vidi una panchina libera e dentro di me una voce mi consigliò di sedermi. Era come se il momento giusto per iniziare a leggere quel libro fosse arrivato, così, all’improvviso, ed infatti senza nemmeno saper perché mi ritrovai con il libro tra le mani, appoggiato sulle mie ginocchia. Gli occhi cominciarono a fare il loro lavoro di osservatori e cominciarono a fissare il titolo. Quell’insieme di caratteri pian piano prese corpo e senso e la mia mente lo stava decifrando: L’-A-N-I-M-A-N-E-R-A-D-E-L-M-O-N-D-O, “L’anima nera del mondo”. Ma che genere era quel libro? Dal titolo poteva sembrare anche un romanzo giallo ma dalla foto sulla copertina non sembrava proprio lo fosse.
Vi era raffigurato un bambino nero che accennava un sorriso e intorno a lui si poteva scorgere un paesaggio non ben definito, fatto di terra e immondizia che insieme formavano un tutt’uno.
Il bambino aveva uno sguardo particolare: furbo, intenso ma nello stesso tempo velato. In fondo alla copertina, nell’angolo destro, piccolo piccolo c’era scritto: “Neto, 9 anni, Luanda (Angola)”.
Ecco, sicuramente il libro parlava di Africa! Chi me lo aveva regalato sapeva che tale genere poteva interessarmi molto. Ero ancora più curiosa d’iniziare a sfogliare quel libro, di vedere l’indice, di leggere i titoli dei vari capitoli e mentre mi accingevo a eseguire questi passaggi, la mia mente aveva sempre impresso davanti lo sguardo di Neto.
Alzai il mio sguardo al di là del libro e improvvisamente una sagoma nera mi apparve davanti. Mi salutava con la mano e mi diceva “Ciao!” in un italiano un po’ stentato. Rimasi ferma, immobile, pietrificata, sospesa tra il sogno e la realtà, tra la fantasia e il qui e ora che si vive in ogni istante. Saranno state le cinque del pomeriggio ma era come se il tempo fosse indefinito, non meglio precisato, perché in quel momento non avrei saputo dire quale parte del giorno fosse. Un fermo immagine infinito. Risposi al saluto con un sorriso e subito la figura nera prese ad avvicinarsi ancor più a me e a parlarmi. “Mi presento: ho gli occhi neri, i capelli neri e la pelle nera, mi piace correre e giocare con la palla. Ho quattro fratelli: Grazo, Paisinho, Edgar e Jaimito e viviamo con mamma Paula che lavora al mercato e con quello che può guadagnare cerca di non farci mai mancare qualcosa da mangiare. Io, il papà non ce l’ho più perché è morto in guerra qualche anno fa. Vivo in un quartiere che si chiama Lixeira, che in italiano vuol dire “immondezzaio”. Molte persone del mio paese sono fuggite dalla guerra e hanno costruito le loro case sulla discarica della città. Dove vivo non ci sono le fogne né l’acqua corrente nelle case e le strade sono fatte d’immondizia.”
Che presentazione! Era una situazione surreale: davanti a me c’era un bambino che non avevo mai visto fino ad allora che mi aveva recitato tutto d’un fiato la sua storia, quasi l’avesse imparata a memoria come si fa con la poesia di Natale da dover recitare in famiglia. Ero imbambolata: guardavo quel bambino e contemporaneamente mi rimbalzavano in faccia, dure, quelle parole che avevo appena sentito…case costruite sulla discarica della città,…né fogne né acqua corrente nelle case,…persone fuggite dalla guerra… Erano parole forti, che facevano pian piano sempre più male, man mano che il loro significato prendeva forma nella mia mente, nel mio cuore e che si trasformava in una sensazione strisciante che passava dentro la pelle e che provocava dei brividi di freddo. Non sapevo se fossero vere o meno quelle parole, come non riuscivo ancora a capire se quella scena che stavo vivendo e sperimentando fosse vera. Nonostante il dubbio che mi teneva in sospeso, quelle parole ascoltate mi avevano colpito, non sapevo perché, ma mi avevano turbato.
Cominciai a voler immaginare case fatte di spazzatura per dare concretezza a quelle parole, un po’ anche per cercare di ripristinare un mio equilibrio interno, in nome di una razionalità e logicità che aiuta l’essere umano a semplificare le faccende del mondo che vive e che gli accadono. Non era facile immaginare di abitare nella spazzatura: per me la spazzatura era qualcosa da scartare, un rifiuto da buttare nell’apposito contenitore che si trova in strada ed invece, in base a quanto mi aveva detto quel bambino, dove viveva lui addirittura la spazzatura era un qualcosa che veniva utilizzato, non di scarto, che formava la casa dove viveva con i suoi fratelli e la mamma. Ma come si può vivere nella spazzatura? Come può la propria camera e la cucina essere fatte di spazzatura? Sai che odore! Mi veniva da fargli tante domande: se andasse a scuola, cosa mangiasse di solito, se fosse felice…Ma ero bloccata.
Intorno a me non c’era nessuno, sentivo il vento che soffiava tra le foglie degli alberi e che rimbalzava poi sul mio viso. Avevo dei brividi di freddo e mi chiusi nelle spalle per ripararmi dal freddo e dall’imbarazzo che stavo provando.
Ad un certo punto, quel bambino mi chiese di alzarmi: mi voleva portare a vedere qualcosa. Ma dove mi voleva portare? Villa Ada la conoscevo bene perché ogni tanto, ormai da molti anni, andavo lì per fare una passeggiatina, per rilassarmi o per riflettere quando dovevo prendere una decisione o fare una scelta importante della vita. Non so perché mi alzai e una volta in piedi la sua mano amichevole prese la mia e cominciò a condurmi al di là del vialetto. Seguivo quel bambino come se lo conoscessi già e soprattutto mi animava un senso di curiosità inaudito. Costeggiammo la siepe che si allungava sulla destra della panchina e, girato l’angolo, ci ritrovammo inspiegabilmente nel quartiere Lixeira di Luanda, in Angola. Sì, proprio così, come se fossi stata catapultata improvvisamente dall’altra parte del mondo, in una città che non conoscevo, nell’anima più profonda del mondo. Davanti a me c’erano terra chiara e polvere che facevano da contorno a piccole case costruite sopra la spazzatura. Fogne a cielo aperto scorrevano di lato alle case e un odore nauseabondo avvolgeva ogni cosa. Non potevo crederci: stavo osservando con i miei occhi quanto avevo appena ascoltato da quel bambino che mi teneva ancora per mano e che mi mostrava la sua realtà, dove ogni giorno scorreva la sua giovane vita. Ero immobile, ancora più indirizzita di prima e non riuscivo a capacitarmi come una situazione del genere potesse trovarsi lì, a Villa Ada, nella verde Villa Ada, dove ogni tanto andavo per ossigenarmi i polmoni e stare spensierata.
Un pezzo di Lixeira si era improvvisamente radicato tra i vialetti di quella villa pubblica, dall’altra parte del globo, e mentre i bambini giocavano nel prato a “palla avvelenata”, in quello squarcio di terra chiara, altri bambini con la pelle più scura, scalzi, giocavano a pallone per la strada, tra la spazzatura. Ad un tratto il bambino che mi aveva condotto fin lì, mi lasciò la mano e mi disse, sorridente, di andare con lui e con i suoi amici a giocare a pallone, laggiù, sulla strada fatta di polvere e terra battuta. Sgranai gli occhi: io, lì, a giocare a pallone con dei bambini, io che non sapevo giocare a calcio e che nemmeno ne avevo tanta voglia, io che ero andata a fare una passeggiatina per rilassarmi e stare un po’ tranquilla, io che…, io che…Ma tutte queste resistenze e paranoie che mi stavano affollando la mente, in un attimo divennero degli echi lontani che rimbombavano dentro di me ma sempre più in maniera ininfluente rispetto alla scelta che stavo per fare. Infatti mi mossi e andai dietro a quel bambino, verso gli altri bambini, con l’intenzione di conoscerli e di stare un po’ con loro, e anche di giocare a pallone. Un “Ciao” gridato mi accolse ed io ricambiai. “Ti presento i miei fratelli Grazo e Edgar e i miei amici Julito e Mariano”, disse il bambino. “Piacere”, risposi e tesi la mano verso di loro che ridendo me la strinsero. Bene, dopo questa piacevole e calorosa accoglienza, ero pronta a giocare a calcio. Velocemente ci dividemmo in due squadre da tre persone ciascuna e senza dover concordare regole particolari, cominciammo a giocare. Che scena doveva essere vista dall’esterno! Ma in quel momento non mi importava niente di che cosa potessero pensare e dire eventuali passanti, perché una sensazione di gioia e verità cominciava ad invadermi le vene ed era talmente forte da resistere a ogni tipo di pregiudizio. Correvo da una parte all’altra del campo di gioco improvvisato su quella terra chiara battuta, cercando di intercettare la palla che Grazo e Mariano, i miei compagni di squadra, mi passavano con scatti felini. Su cinque passaggi, se andava bene, riuscivo a stopparne uno, per non parlare poi dei tiri che facevo. Affannavo dietro a quel pallone un po’ sgonfio come mai avevo fatto nella mia vita, ma mi divertivo un sacco. Dopo circa venti minuti di gioco ininterrotto, dovetti alzare bandiera bianca: mi arrendevo, non potevo competere con delle gazzelle nate, che senza affaticarsi più che tanto, correvano veloci, a piedi nudi, di qua e di là. Mi fermai e mi sedetti di lato, non avevo più lo smalto atletico di una volta, dovevo riposarmi, respirare e possibilmente anche bere perché una forte arsura aveva attanagliato la mia bocca. I bambini, che fino a quel momento avevano gridato, riso e corso, si fermarono in silenzio e vennero subito intorno a me a vedere come stessi. Mi guardavano tra il preoccupato e il canzonatorio, non sapendo se mi sentissi poco bene o fosse solo un attacco fisiologico di stanchezza di una ragazza ormai non più tanto giovane. Li tranquillizzai subito: stavo bene, ero solo un po’ stanca e affaticata. Avevo delle vampate di calore: mi sentivo riscaldata ed ero contenta.
Forse non era il caso di continuare a giocare e allora ci mettemmo a sedere tutti e sei per terra, in cerchio, pronti a raccontarci qualcosa o soltanto a guardarci negli occhi per scambiarci un momento di vita e condividere sensazioni positive.
Vicino a noi c’era un piccolo cancellino dal quale si accedeva a uno slargo sempre di terra battuta, dove si potevano scorgere barattoli di latta, disposti in cinque file di sei, allineati e quasi equidistanti, di fronte ad un muro sul quale era attaccato un rettangolo nero che da lontano non si vedeva bene che cosa fosse. Chiesi a Grazo che era seduto accanto a me, che cosa fosse e che rappresentasse quello spazio e lui mi rispose che era la loro scuola. La loro scuola? E dove erano le aule, le cattedre, i banchi, le sedie…Come poteva essere quella una scuola? Edgar prese a spiegarmi che le sedie erano quei barattoli di latta capovolti, in fila davanti alla lavagna attaccata al muro. Ecco che cos’era quel rettangolo al muro! L’aula era a cielo aperto: Padre Marcelo che aveva organizzato quella scuola, aspettava ancora una donazione promessa per poter costruire una tettoia e permettere a quei bambini di poter frequentare la scuola anche dopo le 10.30 della mattina, quando il sole comincia ad essere troppo forte. Il bambino che mi aveva fatto scoprire tutto questo, intervenne dicendomi che a lui piaceva molto andare a scuola perché incontrava i suoi amici e imparava molte cose nuove e interessanti. Non sempre, però, poteva andarci perché a volte doveva aiutare la mamma al mercato a vendere il pesce. Lui era il secondogenito e doveva spesso aiutare la mamma e i suoi fratelli più piccoli. Mi raccontava anche che a volte gli piaceva giocare a fare il grande e faceva finta di guidare i rottami delle macchine che si potevano trovare abbandonati ai bordi delle strade. Si esercitava perché da grande avrebbe voluto fare l’autista e girare il mondo. Sorrisi.
Chiesi a Julito quale fosse il suo sogno da voler realizzare e lui mi rispose che voleva fare il maestro. Mi colpì molto e sinceramente questa risposta mi emozionò, anche perché Julito aveva solo sette anni e già aveva capito l’importanza del conoscere, dello studiare e del tramandare il sapere agli altri.
Mariano, che era il più timido, mi si avvicinò e mi disse che anche a lui piaceva andare a scuola e amava soprattutto le poesie e mi chiese se avessi voluto ascoltarne una. Mi colse impreparata: mi aveva spiazzata ma ovviamente gli risposi che mi avrebbe fatto molto piacere ascoltare una poesia da lui recitata. Contento della mia risposta affermativa, si mise in posa, ben dritto e con aria seria cominciò a declamare la poesia che aveva scelto.
”Del brillare del sole, del sole fecondo immortale e bello…Per il tuo grembo, Madre mia altre genti furono cullate con voce di tenerezza ninnate dal tuo latte alimentare di bontà e poesia di musica, ritmo e grazia…” Era un canto di lode e speranza rivolto alla Madre Africa e alla sua profonda e feconda anima nera. Sì, perché l’Africa ha un’anima profonda e feconda, che scorre come l’acqua nelle vene di tutto il mondo e lo irrora, lo rende vivo e lo scuote nello stesso tempo.
Rimasi a bocca aperta: aveva recitato con serietà, ritmo e musicalità quella poesia, come se fosse un attore professionista, ma era solo un bambino di otto anni.
Quelle parole avevano portato con loro una carica emotiva fortissima che percepivo dirompere nell’aria e vibrare sulla superficie del mio corpo. A pensarci bene, che situazione assai particolare stavo vivendo quel giorno, a Villa Ada, in quel pomeriggio di primavera. Non sapevo più chi ero e dove mi trovavo: il mio dentro era scisso tra ciò che pensavo di essere in relazione a ciò che fino ad allora avevo visto e vissuto nella mia vita e ciò che mi accingevo ad essere in base a ciò che stavo vivendo e che inevitabilmente mi stava portando ad un cambiamento interiore, quanto meno nella capacità di saper andare oltre a ciò che appare, ricercando l’essenziale, lasciandosi portare dal fiume della conoscenza vera, quella esperienziale dell’anima che scorre nel letto dei valori saldi dell’universale umano.
Davanti a me quei bambini incarnavano i valori della Speranza, dell’Attesa fruttuosa di un domani migliore, della Gioia del vivere e del Prendere sul serio il nostro essere e agire nel mondo, anche semplicemente recitando una poesia che rappresenta un qualcosa che mi appartiene e mi identifica. Provavo stupore e allo stesso tempo gioia. Pensando ciò, stavo sperimentando personalmente la forza contagiosa della Gioia e la sua circolarità e autoalimentazione di cui nella teoria spesso si sente parlare.
In tutto questo, avevo completamente perso il senso del tempo e della sua dimensione tiranna che scandisce inesorabilmente ogni istante della nostra vita. Ed è proprio in nome della concezione sociale efficientista del tempo che mi accorsi che erano già le 19.30 e che avrei dovuto già stare a casa a preparare la cena, a sistemare le cose per il giorno seguente, a rispondere a dei messaggi e a delle mail…ed invece ero ancora lì, a Lixeira, in Angola, con dei bambini mai visti, a sentire le loro storie e a osservare la loro scuola fatta di niente. Mi ricomposi e mentre mi stavo accingendo a salutare i miei giovani interlocutori, il bambino che mi aveva accompagnato fin lì e che mi aveva permesso di fare quel viaggio, si offrì di riaccompagnarmi dove c’eravamo incontrati. Acconsentii volentieri e subito dopo aver salutato gli altri, mi riprese la mano e cominciò a condurmi verso la panchina di Villa Ada, costeggiando la siepe del vialetto. Prima di girare l’angolo, però, istintivamente mi girai indietro e con lo sguardo risalutai intensamente quei bambini con i quali avevo giocato quel pomeriggio di primavera a Lixeira, in Angola e ridetti anche uno sguardo a tutto il paesaggio che aveva contornato i nostri giochi e la nostra chiacchierata.
Ed eccoci arrivati alla panchina dove avevo lasciato la mia borsa piena di cose. A quel punto, il bambino mi lasciò la mano e mentre stava per andar via mi disse: “Ah, mi stavo dimenticando, mi chiamo Neto. Ciao!” e in men che non si dica corse via, girando il solito angolo del vialetto.
Neto, Neto…Ah, Neto! Sì, Neto, 9 anni, Luanda (Angola)! Ecco chi era quel bambino! Neto, il bambino che avevo visto sulla copertina del libro che stavo per iniziare a leggere. A proposito, dov’era finito quel libro? Improvvisamente sentii un forte brivido di freddo. Scossi le spalle, brr, brr, e chiusi gli occhi. Mentre chiudevo gli occhi mi accorsi che li stavo invece aprendo. Sì, chiudevo e aprivo contemporaneamente gli occhi. Ma come era possibile?
Sentii un sordido rumore vicino a me e vidi che il mio libro era caduto a terra. Ero seduta sulla panchina di Villa Ada, con le mani sulle ginocchia, e vicino ai miei piedi c’era il libro che mi avevano regalato per il compleanno. Raccolsi il libro e lo aprii alla prima pagina: “Mi presento: ho gli occhi neri, i capelli neri e la pelle nera, mi piace correre e giocare con la palla. Ho quattro fratelli: Grazo, Paisinho, Edgar e Jaimito e viviamo con mamma Paula che lavora al mercato…”. Ma io quelle parole le avevo già sentite e addirittura vissute e viste con i miei occhi! Alzai, basita, gli occhi da quella pagina scritta e con lo sguardo e la mente cercavo di riuscire a ricomporre ciò che era successo, a rimettere insieme i pezzi di quello che mi sembrava di ricordare di aver sentito e provato poco prima. Che sensazione strana. Mi sentivo scissa dentro tra realtà, sogno, fantasia e vivido ricordo. Ma dov’era quel bambino che avevo conosciuto? E i suoi fratelli e i suoi amici? E soprattutto, dov’era la sua scuola e l’improvvisato campo da calcio dove avevamo giocato?
Corsi dietro l’angolo del vialetto: davanti a me c’era il prato di Villa Ada e il laghetto con le sue paperelle e non c’era traccia alcuna di Julito, Grazo, Neto e degli altri.
Mi resi conto che avevo sognato e che mi ero immaginata ciò che stavo leggendo. Avevo scoperto quella parte di Africa che vive in ognuno di noi, nella nostra anima, in un posto nascosto, dietro l’angolo del nostro sopravvivere al caotico e trascinante quotidiano. Sta lì, e riaffiora quando gioiamo per le piccole cose, quando ci emozioniamo davanti ad un’alba nascente, quando ci indignamo davanti alle ingiustizie, quando ci soffermiamo a vedere e sentire la povertà più o meno invisibile, più o meno materiale che c’è nelle nostre città, nelle nostre strade e nei nostri cuori.
Tutto sta nello scoprirla, nel conoscerla e nel saperla riconoscere, e poi farci i conti. Sì, farci i conti, che vuol dire anche sentirsi impotente, ma comunque ti permette di sprigionare l’essenza sensibile dell’essere umano che ci fa avvicinare al vero senso del Bene e dell’Amore. E se anche fa soffrire, ci rimette in linea con il nostro sentirci vivi e umani che ci dà la Speranza del domani.
Ripresi la mia borsa, i miei pensieri e mi incamminai verso casa. Ero serena, forse diversa, più consapevole e piena di voglia di contribuire ad un domani migliore, più semplice e più a misura di Neto e dei suoi amici e fratelli.
Commenti recenti